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C A L ì E

S I L E N Z I O

​​

 V E N T R E 
 

  F I N E S T R A  
 

  F A T I C A  

  
      T E M P O      

 

P I E T R A

© Davide Occhilupo
© Davide Occhilupo

Nel cuore del Salento, lontano da mete turistiche, esiste un luogo, un paesaggio dove regna il SILENZIO, dove la natura ha reclamato il suo posto.
Le “Calìe”, ampio spazio dal VENTRE squarciato fatto di immensi vuoti, di alte pareti e giganteschi pilastri che sembrano sorreggere il cielo, luci e ombre mutano col trascorrere delle ore. I colori variano passando dal crepuscolare paglierino all’accecante bianco del mezzogiorno, dall’oro pomeridiano al rosato del tramonto, creando di volta in volta diversi scenari.
Ecco che grossi blocchi di pietra diventano delle scale e le aperture nella roccia una FINESTRA su un mondo che non esiste quasi più.
Solchi sulle pietre, simili a graffi lasciati da enormi   animali, testimoniano il passaggio della più tenace delle creature, l’uomo.
Qui con i piedi ben piantati, la schiena curva e le braccia forti, piegati dalla FATICA, uomini e ragazzi poco più che bambini scavarono per elevarsi.

Con i “piezzi” da loro estratti si eressero chiese, si costruirono case e palazzi oggi meraviglie di questa terra.

Di quel TEMPO lontano, pochi sono coloro ancora in vita, di loro rimane solo il ricordo e qualche vecchia fotografia.

Fino a pochi decenni fa l’estrazione dei conci di tufo era compiuta manualmente da operai detti “zzoccaturi”, dal nome dell’attrezzo utilizzato, “lu zzoccu”, un arnese simile al piccone, formato da un manico di legno “u margiale” e una parte metallica più larga da un lato e più stretta e appuntita dall’altra.

“Lu zzoccaturu” tracciava nella PIETRA i solchi necessari all’estrazione dei conci, era un lavorodurissimo, bisognava far cadere “lu zzoccu” in modo ritmico e con precisione sempre nella stesa fessura fino al raggiungimento della profondità desiderata per poi spostarsi in avanti di soli pochi centimetri.

Quando i solchi scavati erano sufficienti, si staccava il blocco di tufo colpendolo con un grosso martello di legno detto “maju”.

Dei 300 ettari originali, la ristretta area rimasta ancora intatta rappresenta una vera e propria opera d’arte a cielo aperto che si rivela solo a chi si ferma ad ammirarla.

© Davide Occhilupo

A coloro che in tempi ormai lontani in questi luoghi han faticato e a coloro che mi hanno accolto in casa, dedicato del tempo e raccontato della loro vita rendendosi poi disponibili a farsi ritrarre, senza il loro prezioso contributo nulla sarebbe stato fatto.

© 2025 - Davide Occhilupo

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